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Thomas Harriot

il primo osservatore telescopico

 

 

Nota: tutte le date sono in calendario gregoriano. Anche se all’epoca l’Inghilterra adottava ancora quello giuliano, la scelta è stata fatta per un criterio di omogeneità ai fini del possibile confronto con le osservazioni effettuate negli altri paesi e con le circostanze osservative fornite dai vari software planetari.

 

 

Nel 2009, Anno Internazionale dell’Astronomia, si è parlato molto, ovviamente, dell’invenzione del telescopio e delle prime osservazioni con questo strumento. Fra coloro che puntarono per primi un telescopio al cielo vi fu l’inglese Thomas Harriot (fig. 1). Sulla riscoperta della vita e delle opere di questo straordinario contemporaneo di Galileo, i cui contributi sono stati per molto tempo avvolti nel mistero, è stato fra l’altro incentrato l’intero Anno nel Regno Unito.

 

Fig. 1. Si pensava che questo dipinto del 1602, secondo una tradizione dei primi del '900, ritraesse Harriot, ma un restauro del 1957 rivelò la dicitura visibile sull'età del personaggio effigiato, 32 anni, 10 in meno dell’età di Harriot all’epoca (Trinity College, Oxford).

 

Thomas Harriot nacque nel 1560 ad Oxford, ma non si conosce la precisa data di nascita, né i nomi e le occupazioni dei genitori. Frequentò il St Mary’s Hall (fig. 2), uno dei college afferenti all’Università cittadina, dove conseguì il suo baccalaureato nel 1579, acquisendo un bagaglio particolarmente approfondito nel campo della matematica.

 

Fig. 2. La St Mary’s Hall, dove si laureò Harriot, in un’incisione del 1675 di David Loggan.

 

In quegli anni l’Inghilterra si stava avviando a diventare la seconda potenza europea, dopo la Francia. Già dai tempi di Enrico VIII aveva cominciato ad affermarsi come potenza mercantile e marinara, ed era entrata in urto con la Spagna, sia in varie zone dello scacchiere europeo sia nelle rotte atlantiche. Nel 1558 era salita al trono la giovane figlia di Enrico VIII e Anna Bolena, Elisabetta I (fig. 3), che completò l’opera del padre, sbaragliando l’enorme flotta, l’Armada Invencible, che il sovrano spagnolo Filippo II aveva inviato a invadere l’Inghilterra e deporne la regina.

 

Fig. 3. Ritratto di Elisabetta I (Darnley Portrait) realizzato intorno al 1575, quando la sovrana aveva 42 anni (Londra, National Portrait Gallery).

 

Da quel momento iniziò il declino della Spagna e l’irresistibile ascesa dell’Inghilterra sul proscenio mondiale. Il Paese era permeato di febbrili attività mercantili e marinare, sorrette, come sempre avviene nelle fasi di espansione economica, dal fiorire della scienza, delle lettere, delle arti. I suoi capitani, dotati di notevoli capacità tecniche, espansero i commerci su tutte le principali rotte mondiali, comprese quelle americane, dove erano in concorrenza con le navi francesi e spagnole. Non si facevano scrupolo, come è noto, di ricorrere anche alla guerra di corsa pur di compiere i loro guadagni. Alcuni di questi corsari, come Martin Frobisher e Francis Drake, famoso il primo per la ricerca del Passaggio a Nord Ovest, il secondo per aver compiuto la seconda circumnavigazione del globo, furono anche tra i fautori della sconfitta dell’Armada spagnola. Un altro corsaro famoso fu Walter Raleigh (fig. 4), del quale Harriot divenne, nel 1583, il pupillo.

 

Fig. 4. Ritratto di Sir Walter Raleigh eseguito da Nicholas Hilliard nel 1585, all’età di 33 anni (Londra, National Portrait Gallery).

 

Raleigh era tuttavia ben più di un corsaro. Di otto anni più vecchio di Harriot, oltre che uomo d’azione, era un aristocratico nelle grazie della Regina, un letterato di chiara fama, un uomo dalla profonda cultura e dai molteplici interessi giunto, nei primi anni Ottanta del Cinquecento, all’apice della sua fama, una delle personalità più importanti dell’epoca elisabettiana, di fatto il principale iniziatore dell’espansione coloniale britannica. Harriot fu impiegato da Raleigh nella progettazione e nella costruzione delle sue navi e nella scelta del suo equipaggio, ma soprattutto nella risoluzione dei problemi di astronomia nautica. In particolare si occupò di compilare tavole aggiornate di declinazione del Sole, di semplificare la raccolta delle misure di altezza del Sole, della Polare e delle altre stelle per determinare la latitudine, e introdusse l’idea di usare l’amplitudine solare o di una stella per determinare la declinazione magnetica. Egli tenne su questi temi delle lezioni a cui partecipavano i capitani e i piloti di Raleigh, oltre a Raleigh stesso e ai suoi amici, a Durham House, a Londra, la residenza di Raleigh dove il matematico viveva in quel periodo. Ne realizzò anche un manuale che veniva dato in dotazione a bordo delle navi, Arcticon, che però non venne mai pubblicato e di cui non è mai stata trovata traccia. Secondo lo storico John Roche, grazie ad Harriot Raleigh aveva a quel tempo a disposizione la migliore scienza nautica nell’intera Europa.

Nella cerchia di Raleigh erano comprese alcune fra le menti più importanti del periodo, come John Dee, potente astronomo e astrologo di corte, e Thomas Digges, primo diffusore delle idee copernicane in Inghilterra (fig. 5). Attraverso Raleigh, Harriot conobbe anche William Gilbert, medico della regina, fondatore dello studio scientifico del magnetismo.

 

Fig. 5. L’universo copernicano secondo Thomas Digges (da A perfit description of the caelestiall orbes, Londra, 1576). Andando al di là di Copernico, che immaginava ancora le stelle fisse tutte ugualmente lontane, Digges le colloca a distanze variabili dal Sole.

 

 

Ottenuta da Elisabetta una patente che gli conferiva ampi diritti sulle terre comprese fra i 35° e i 45° di latitudine, Raleigh organizzò varie spedizioni per la colonizzazione dell’America. Nel 1584 fondò sulle coste settentrionali del continente la prima colonia britannica sul suolo americano, chiamandola Virginia, in onore della sovrana rimasta nubile. L’anno successivo vi fece ritorno portando con sé, per le sue competenze astronomiche e topografiche, anche Harriot. Fra l’altro, dopo dieci giorni dalla partenza, il 29 aprile 1585, lo scienziato osservò un’eclisse di sole al tramonto. Si trattava di un particolare tipo di eclisse, ibrida, cioè anulare-totale (fig. 6), ma visibile soltanto come anulare, e di breve durata, nella zona dell’Atlantico dove si trovavano le navi. È possibile ipotizzare, poiché il fenomeno non era visibile dal continente europeo, che la partenza sia stata programmata in quei giorni per poterlo studiare.

 

Fig. 6. Percorso dell’eclisse di Sole del 1585 osservata in alto mare da Harriot (Fred Espenak e Jean Meeus/NASA/Google/Xavier M. Juber).

 

Harriot si fermò per circa un anno e mezzo in Virginia ed ebbe il tempo di osservare usi e costumi dei nativi Algonchini e di impararne la lingua. Ne diede conto in A brief and true report of the new found land of Virginia, pubblicato nel 1588, che è da ritenersi a tutti gli effetti la prima opera di antropologia culturale.

Quando fece ritorno dall’America, si recò in Irlanda, in veste di amministratore dei possedimenti che Raleigh vi aveva, e di uno dei quali il suo protettore gli fece dono. Per qualche anno visse in Irlanda, anche grazie alle rendite che la proprietà gli assicurava, ma poi ritornò in Inghilterra, e vendette la tenuta nel 1597. Nel 1592 la fortuna aveva però voltato le spalle al grande navigatore. L’anno prima, infatti, sir Walter aveva sposato Elizabeth Throckmorton, dama di compagnia della regina, ma in segreto e senza chiederne l’autorizzazione reale com’era d’obbligo. Quando il matrimonio fu scoperto, la dama fu allontanata dalla corte e Raleigh fu incarcerato. La prigionia durò poco tempo, ma ormai il cavaliere era caduto in disgrazia e, poiché non voleva coinvolgere i suoi protetti nelle proprie disavventure, raccomandò Harriot ad un nuovo mecenate, Henry Percy, Conte del Northumberland. Costui era conosciuto anche come The Wizard Earl, a causa della sua passione per la scienza, l’alchimia e la cartografia e la sua sterminata biblioteca: le cronache raccontano che spendeva 50 sterline l’anno, circa 125 000 euro attuali, per acquistare libri. Era amico di letterati come Christopher Marlowe e John Donne e del citato John Dee.

Sotto l’ala di Percy si costituì un trio di filosofi, che comprendeva anche Walter Warner e Robert Hues, chiamati i Tre Magi, nel quale Harriot rappresentava il Mago “anziano”, che godeva di molta libertà creativa e aveva l’unica incombenza di intrattenere e conversare con il conte su ogni sorta di tematica. I due filosofi “minori” ricevevano un emolumento di 60 sterline l’anno, mentre Harriot riceveva una somma doppia, pari più o meno, a 300 000 euro (curiosamente molto simile a quanto ricevette Galileo dal Granduca di Toscana a partire dal 1610). Assieme a varie tenute e case, questa somma gli fu elargita fino alla morte, e gli permise di dedicarsi senza nessuna preoccupazione ai suoi studi. Il conte gli diede anche in uso Syon House (fig. 7), una favolosa residenza circondata da una tenuta di 80 ettari nella periferia di Londra, che egli usò sia come dimora che come laboratorio scientifico a partire dal 1597.

 

Fig. 7. La Syon House oggi (Russ Hamer).

 

Negli anni Novanta Harriot si occupò di varie questioni matematiche. Ancora quando era con Raleigh era stato invitato da questi a dedicarsi a un problema tipicamente militare, stabilire la vera traiettoria di un proiettile di cannone. Affrancandosi dalla fisica aristotelica ancora dominante, lo scienziato riuscì a scomporre la traiettoria in una componente verticale ed una orizzontale, comprese che la resistenza dell’aria influiva sull’intera fase di volo, e che la gravità agiva sulla componente verticale. Arrivò molto vicino ad una soluzione dell’analisi vettoriale del problema di trovare la velocità del proiettile e infine, nel 1607, giunse anche alla conclusione che la traiettoria fosse una parabola inclinata.

Si occupò anche di ottica, misurando l’indice di rifrazione di vari liquidi contenuti in un prisma di vetro cavo. Risolse il cosiddetto problema di Alhazen, ovvero la ricerca del cammino che un raggio luminoso deve percorrere (in un mezzo omogeneo) per giungere all’occhio da una sorgente data, dopo aver subito riflessione su uno specchio sferico. Alcuni pensano che per risolvere la questione Harriot abbia usato delle tecniche basate sul calcolo infinitesimale, introducendo idee che furono riprese decenni dopo dal grande matematico Isaac Barrow, professore di Newton a Cambridge. Inoltre in seguito, nel 1601, scoprì la legge che descrive le modalità di rifrazione di un raggio luminoso nella transizione tra due mezzi con indice di rifrazione diverso, oggi nota come legge di Snell, il matematico olandese che la trovò vent’anni più tardi.

Si occupò intensivamente anche di chimica, per circa un anno, dal maggio 1599 al maggio 1600, ma a quanto sembra senza conseguire risultati originali.

Sempre negli anni Novanta Harriot compì numerose osservazioni con il più grande dei suoi radii astronomici, lungo ben dodici piedi (3,65 m), per ottenere una misura precisa della distanza della Stella Polare dal polo nord celeste (che in quel periodo era di quasi tre gradi). Si trattava di un’esigenza irrinunciabile soprattutto per i naviganti. Topografi e astronomi, infatti, non avevano problemi a trovare il nord vero con altri metodi e strumenti, ma la cultura media dei marinai consentiva loro di compiere soltanto osservazioni relativamente semplici, come appunto prendere l’altezza della Polare. Una volta che era conosciuta la vera distanza della stella dal Polo era abbastanza agevole, con tavole o diagrammi, trovare il nord vero. Il radio astronomico (fig. 8) era una versione della balestriglia, strumento inventato nel Medioevo e costituito da due regoli di diversa lunghezza. Il regolo corto era montato a croce a cavallo del regolo lungo e scorreva su di esso. Mentre la balestriglia serviva per misure di altezza, il radio misurava l'angolo di separazione fra due astri: posto l'occhio a un’estremità del regolo lungo si faceva scorrere il regolo corto finché le estremità, munite di mire, sfioravano i due astri. Il rapporto fra la lunghezza del regolo corto e la sua distanza dall’occhio permetteva, grazie a una tavola delle tangenti, di ricavare l’angolo di separazione fra i due astri. In altre versioni il regolo lungo era direttamente graduato.

 

Fig. 8. L’utilizzo della Cross Staff (da Willem Janszoon Blaeu, Le flambeau de la navigation, Amsterdam, 1619).

 

Al di là degli aspetti nautici, però, l’astronomia interessava Harriot soprattutto per i suoi intimi rapporti con la matematica. Come Thomas Digges e William Gilbert, era fortemente attratto dalla semplicità e dall’eleganza matematica dell’universo eliocentrico di Copernico.

Nel 1603, con la morte di Elisabetta, le cose sembrarono cambiare radicalmente in Inghilterra. Il nuovo re Giacomo I fece arrestare Raleigh con l’accusa di cospirare contro di lui. Un sommario processo ne decretò la condanna a morte. Tentò il suicidio, ma fallì. Allora chiese ad Harriot di testimoniare in suo favore, ma non ci fu nulla da fare, la pena venne confermata e lo stesso Harriot sospettato di essere ateo e di avere un’influenza maligna sul condannato. Il matematico fu terribilmente turbato da tutto ciò e per circa un anno non fu in grado di dedicarsi a nessun lavoro scientifico. Raleigh ricevette però all’ultimo momento la grazia, che fu commutata in una reclusione a vita nella Torre di Londra. Nel 1605 anche il secondo protettore di Harriot, Percy, fu arrestato, con l’accusa  di essere stato a conoscenza della Congiura delle Polveri, a cui aveva partecipato anche il nipote Thomas, e di non averne avvertito le autorità. Fu rinchiuso anch’egli nella Torre, da dove uscì solo nel 1621. Perfino Harriot fu sospettato di essere ostile al re, in quanto aveva redatto un oroscopo per Giacomo I che, secondo gli inquirenti, aveva l’obiettivo di influenzarne la politica. Per questo, fu imprigionato e rilasciato solo dopo tre settimane.  

Dopo il rilascio, egli si occupò soprattutto di ottica, studiando la dispersione della luce nei vari colori e cominciando a sviluppare una teoria sul fenomeno dell’arcobaleno. Keplero venne a conoscenza dei suoi studi, e per qualche tempo fra i due vi uno scambio di corrispondenza, che non portò però a feconde conclusioni a causa, pare, della reticenza dell’inglese sui propri risultati.

Prima dell’avvento del telescopio, come astronomo pratico Harriot si occupò soprattutto di comete, osservandone una decina. Egli a quanto pare usò sempre, come strumenti, radii astronomici di varie dimensioni, anche se non così grandi come quello prima citato. Con questi riusciva a misurare angoli fino a due arcominuti. Celebri sono le sue osservazioni fotometriche e astrometriche della cometa del 1607, che altri non era che la Halley (fig. 9).

In quel passaggio la sua testa raggiunse la magnitudine 0 e la sua coda risultò lunga 8-10°, fu vista da astronomi del calibro di Keplero, Longomontano, Benedetto Castelli, ma quelle di Harriot, che osservò da Syon House assieme all’amico, cognato di Percy, William Lower, furono di gran lunga le osservazioni più complete e precise.

Quando F.W. Bessel, nel 1808, riuscì a ricostruire gli elementi orbitali di quel passaggio, utilizzò solo un’osservazione di Keplero e una di Longomontano, ma ben otto di Harriot.

 

Fig. 9. La cometa del 1607 raffigurata nella Cometographia di Hevelius (Danzica, 1668).

 

Il telescopio, com’è noto, fu inventato nei Paesi Bassi nel settembre del 1608. Da lì, rapidamente, la notizia del nuovo ritrovato e anche la capacità di replicarlo si propalò per tutta l’Europa. Galileo ne sentì parlare per la prima volta nel maggio del 1609 e nel mese di agosto fu in grado di costruire uno strumento di potere simile a quelli olandesi, nove ingrandimenti, che presentò al governo veneziano il 21 del mese.

In un bollettino stampato a L’Aja nel 1608 si affermava che il telescopio era stato anche puntato verso il cielo e che “…le stelle che ordinariamente non appaiono alla nostra vista … si possono vedere per mezzo di questo strumento.”, ma non sappiamo chi e quando abbia compiuto questa esperienza. Galileo, d’altra parte, non usò subito il telescopio come strumento astronomico, e le prime sue osservazioni datate, come si desume dal Sidereus nuncius, sono del 7 gennaio 1610, data in cui scoprì i primi tre satelliti di Giove. È stato anche sufficientemente chiarito come sia impossibile datare i disegni lunari del Sidereus, dal momento che essi corrispondono ad un’impressione di massima di come appare la Luna nelle diverse fasi, piuttosto che essere la riproduzione di particolari realmente esistenti visibili in una fase particolare, anche se è probabile che Galileo iniziasse le sue osservazioni almeno da ottobre 1609, perché in quel mese aveva mostrato la Luna al granduca Cosimo II. Invece, Harriot lasciò scritto nei suoi appunti che rivolse un telescopio olandese da sei ingrandimenti verso la Luna la sera del 5 agosto 1609. Quindi, senza alcun dubbio, la sua è la prima osservazione registrata di un qualsiasi corpo celeste effettuata al telescopio.

Non sappiamo come Harriot si procurò lo strumento, anche se è probabile che si trattasse proprio di uno strumento di fabbricazione olandese importato. Diversi autori, soprattutto inglesi, hanno affermato che vari passi di scienziati di epoca elisabettiana, Leonard e Thomas Digges, Robert Recorde, John Dee, William Bourne, lo stesso Harriot, farebbero pensare che un qualche tipo di telescopio fosse stato inventato in Inghilterra prima del 1588 ma, ad un esame più accurato, si comprende come le loro fossero soltanto speculazioni su ciò che si sarebbe potuto fare, non su ciò che era già stato fatto, utilizzando lenti e specchi, non più lenti, e meno che meno lenti concave, come quelle utilizzate per l’oculare dei telescopi olandesi.Il passo che riguarda Harriot è il riferimento al fatto che, quando si trovava in Virginia, aveva mostrato agli Algonchini incuriositi tutto il suo armamentario di strumenti scientifici, incluso a perspective glasse whereby was shewd manie strange sightes. Ora, se andiamo a vedere su un dizionario di riferimento come il Webster scopriamo che un perspective glass è “un telescopio che mostra gli oggetti nella giusta posizione”, probabilmente, si intende, un telescopio raddrizzatore, terrestre, ma questa è una locuzione moderna, entrata in uso dopo il Rinascimento, forse nel settecento (la usa Daniel Defoe in Robinson Crusoe). Harriot può aver voluto indicare qualunque cosa, a partire proprio dal significato più comune dei due termini separati, “vetro” e “prospettico”, forse una lente che deformava gli oggetti, e così si spiegherebbe anche perché mostrava “molte strane visioni”, non ingrandite, non vicine, strane, appunto. D’altra parte, anche il secondo significato riportato dal Webster per perspective glass giustifica questo assunto: “qualsiasi dispositivo ottico in grado di fornire un effetto fantastico o un’illusione ottica”. In ogni caso il cosiddetto “telescopio dei Tudor”, di cui hanno parlato anche giornali non specialistici, è una grossa bufala, come riconoscono del resto anche gli autori inglesi più avveduti.

Certo, il primo telescopio di Harriot doveva essere molto scadente perché, nel disegno che egli fece della Luna, si vede meno di quanto si possa scorgere a occhio nudo sul nostro satellite (fig. 10). A differenza di Galileo, quindi, probabilmente egli non capì ciò che stava guardando, ovvero mari, vallate e montagne appartenenti ad un altro mondo, simile al nostro. Forse si può immaginare ciò che pensò leggendo quanto gli scrisse Lower il 16 febbraio 1610, dopo aver osservato a sua volta per diversi mesi la Luna dalla sua tenuta di Traventi, nel Galles: “Nel complesso essa somiglia a una torta che mi fece la mia cuoca la settimana scorsa; una macchia di sostanza luminosa qua, e una macchia di sostanza scura là, e così  dappertutto, confusamente.”

 

Fig. 10. La Luna raffigurata da Harriot il 5 agosto 1609, a sinistra, a confronto con un disegno effettuato a occhio nudo dall’autore una decina di anni fa.

 

Nell’inverno 1609-1610, quindi contemporaneamente a Galileo, William Lower osservò al telescopio anche le Pleiadi e la zona della spada di Orione, come risulta da una lettera scritta ad Harriot il 23 giugno 1610. Anche il suo telescopio, però, non doveva essere dei migliori, perché nelle Pleiadi scorse solo sette stelle, mentre Galileo ne aveva viste una quarantina.

 

Fig. 11. Mappa della Luna realizzata da Harriot nel 1611. Nell’originale il diametro lunare è di 15 cm. Vi sono 72 particolari annotati con lettere dell’alfabeto e numeri da 1 a 50. Queste indicazioni tuttavia non corrispondono a una legenda ma, stando alle note che accompagnano la mappa, sembrano costituire punti con relazioni geometriche fra loro. Nelle note vi sono però riferimenti a isole e promontori e nomi come Tycho, Copernicus, Plato, Hipparchus. Non è noto se questi si riferiscano agli stessi crateri così denominati da Riccioli 40 anni dopo, ma non possiamo escludere che il gesuita ferrarese fosse a conoscenza del lavoro di Harriot.

 

In seguito Harriot fece costruire i suoi telescopi dal suo assistente a Syon House, Christopher Tooke, che ne realizzò da 8, 10, 20, 30 e perfino 50 ingrandimenti, fornendone anche a Percy e Lower. Dopo aver letto il Sidereus Nuncius di Galileo (pubblicato il 13 marzo 1610), Harriot e Lower tornarono a osservare la Luna con occhi diversi. Il primo realizzò altri 18 disegni della superficie lunare, 17 fra il 27 luglio e il 4 novembre 1610 con telescopi da 10 e 20 ingrandimenti, e uno il 19 aprile 1611 con uno da 32 ingrandimenti. I suoi disegni delle varie fasi lunari sono tecnicamente molto inferiori a quelli di Galileo, poco più che schizzi, ma egli realizzò anche delle mappe del nostro satellite, molto più fedeli delle rappresentazioni galileiane per ciò che concerne la resa di particolari realmente esistenti (fig. 11). Comunque i debiti di Harriot e Lower emergono chiaramente da ciò che scrisse il secondo nella lettera poco prima citata: “Penso che … Galileo abbia fatto di più con le sue scoperte che non Magellano trovando lo stretto per il mare del Sud …  Nella Luna io ho osservato tempo addietro una strana chiazzatura dappertutto, ma non sarei mai arrivato a concepire che qualche parte di questa potesse essere formata da ombre.”  E infatti il primo disegno di Harriot dopo la lettura del Sidereus, quello del 27 luglio 1610, è molto diverso da quello del 1609 e, secondo la storica Terrie Bloom, si tratta in questo caso di un esempio di “percezione derivata”, nel senso che sembra “troppo” ispirato a uno di quelli pubblicati nel Sidereus: molto simili le protuberanze che dalla parte luminosa si protendono nella parte oscura, e il grande cratere in posizione mediana (fig. 12). Somiglianze sospette anche perché il telescopio dell’inglese, pur se più potente di quello usato per il primo disegno, era comunque inferiore a quello presumibilmente usato da Galileo.

 

Fig. 12. A confronto il secondo disegno lunare effettuato da Harriot il 27 luglio 1610, a sinistra, e un disegno di Galileo apparso nel Sidereus nuncius.

 

Probabilmente Harriot fu anche il primo a vedere le macchie solari al telescopio. La sua prima osservazione solare è del 18 dicembre 1610. L’astronomo frisone Johannes Fabricius le vide per la prima volta nel febbraio 1611 mentre la prima osservazione del gesuita svevo Cristoph Scheiner è del marzo dello stesso anno. Quanto a Galileo, in una lettera del 1631 che gli scrisse il padre Fulgenzio Micanzio è riportato che il toscano le vide già nel luglio-agosto 1610, ma una testimonianza così posteriore, e proveniente da un amico fidato su un argomento così scottante e che aveva già dato adito a molte polemiche di priorità, non è probabilmente attendibile. Tanto più che esiste il sospetto che l’affermazione possa essere stata richiesta da Galileo per collegarla ad una analoga contenuta nel Dialogo sui massimi sistemi, licenziato nel 1630, pubblicato nel 1632. E probabilmente non molto più attendibili debbono essere ritenute le autoattestazioni contenute nella Prima lettera sulle macchie solari e nella lettera a Barberini del 2 giugno 1612, anche perché in contraddizione con la prima (la scoperta viene posticipata rispettivamente a novembre e dicembre 1610). La prima prova sicura pro Galileo è dell’aprile 1611, in occasione di una sua visita a Roma, ed ebbe numerosi testimoni. Tuttavia, anche in questa occasione, come ha mostrato John North, Harriot, disegnando le macchie in modo molto schematico (fig. 13), non realizzò la portata di ciò che stava guardando. Soltanto dopo che nell’autunno 1611 Fabricius pubblicò le sue osservazioni nel De maculis in sole observatis, affermando che le macchie avevano un aspetto nebuloso e appartenevano alla superficie di un sole in rotazione su se stesso, il matematico inglese raffigurò le macchie come chiazze nebulose. Egli eseguì ben 199 osservazioni delle macchie solari, per oltre due anni. Stranamente, benché conoscesse il metodo di osservazione tramite proiezione, impiegato dagli altri astronomi, continuò sempre a osservare il Sole direttamente attraverso il telescopio, approfittando dei momenti in cui la sua luce era indebolita dalla scarsa altezza e dall’immersione nella foschia o nella nebbia. Fino all’11 dicembre 1611 sembra che non vi abbia più prestato molta attenzione, perché registrò solo un’altra osservazione, il 29 gennaio. L’11 dicembre tornò a osservarlo perché era stato previsto in quella data dall’astronomo italiano Giovanni Antonio Magini un transito di Venere. Anche se la previsione si rivelò errata, da quel momento Harriot lo seguì costantemente. Conformandosi alle opinioni di Fabricius (e di Galileo) sulla natura delle macchie, comprese che questo rafforzava le opinioni antiaristoteliche e costituiva un argomento a favore di Copernico. Studiò l’evoluzione delle macchie per diverse rotazioni solari, e misurò in poco più di 27 giorni il periodo di rotazione.

 

Fig. 13. Le macchie solari in due disegni di Harriot effettuati da Syon House il 6 e il 10 agosto 1611.

 

Harriot effettuò anche diverse osservazioni dei satelliti medicei. A quanto risulta dalle sue carte, egli li osservò per la prima volta solo il 27 ottobre 1610. Infatti, pur avendone avuto notizia nella tarda primavera da Keplero o dalla lettura del Siderus nuncius, Giove non si presentò in posizione favorevole fino all’autunno. Da allora, fino al 7 marzo 1612, fece numerose osservazioni del pianeta, talvolta misurando anche le distanze angolari dei satelliti dal pianeta, anche se non è chiaro quale metodo usasse. D’altra parte, gli storici ignorano ancora quale fosse il vero sistema utilizzato da Galileo che, com’è noto, effettuò centinaia di queste misurazioni.

Harriot produsse molti altri risultati nell’ambito della matematica. In algebra introdusse una notazione semplificata, diversi simboli che sono usati ancor oggi ed effettuò ricerche fondamentali sulla teoria delle equazioni, che condussero a trovare soluzioni negative e complesse anche di equazioni di grado elevato. Lavorò sulla spirale logaritmica (cosiddetta perché le distanze fra i suoi bracci aumentano in progressione geometrica), mostrando che era una proiezione stereografica di una lossodromia (linea avente la proprietà di tagliare tutti i meridiani con lo stesso angolo) su una sfera, proiezione che egli dimostrò essere conforme (ovvero che conserva gli angoli), e calcolò le lossodromie con grande precisione, introducendo per questi calcoli l’interpolazione con l’operatore per differenza finita.

Inoltre lavorò sulla bilancia idrostatica e intuì, prima di Keplero, che le orbite dei pianeti non erano perfettamente circolari.

Intorno al 1613 Harriot cominciò a perdere interesse nello sviluppare i suoi interessi matematici  e scientifici: si manifestò sul suo volto un’escrescenza carnosa, per la quale, nel 1615, consultò i migliori specialisti. Una piaga cancerosa sviluppatasi dalla narice sinistra si era via via accresciuta fino a consumare il setto nasale, spingersi fino alle labbra e al resto del naso. Con molta probabilità il male era collegato all’abitudine di fumare tabacco, pianta che lui e Raleigh furono fra i primi a introdurre in Inghiterra.

Il suo morale, già provato dal male, fu messo a ulteriore dura prova tre anni più tardi. Sir Walter Raleigh fu rilasciato nel 1616 per guidare una spedizione in Venezuela alla ricerca dell’Eldorado, ma attaccò senza autorizzazione un avamposto spagnolo, violando gli accordi con la potenza straniera. Il conte di Gondomar, potentissimo ambasciatore iberico a Londra, pretese dal re, e ottenne, la sua condanna a morte, e sappiamo dalle cronache che all’esecuzione, l’8 novembre 1618, dovette assistere, in ossequio ai costumi del tempo, anche il devoto amico ed ex pupillo Thomas.

Pochi giorni più tardi Harriot ebbe occasione di assistere all’apparizione della più luminosa delle tre comete apparse quell’anno (fig. 14). Ne compì almeno nove osservazioni, fra il 30 novembre e il 25 dicembre. Fu veramente un evento memorabile, perché la testa dell’astro raggiunse una luminosità tale da essere visibile in pieno giorno, e la coda superò i 100° di lunghezza! Forse l’indole triste e malinconica che, secondo molti storici, era tipica di Harriot, aggravata dalle tragiche circostanze degli ultimi anni, dovette fargli credere che era l’anima dello sfortunato amico che stava tornando a farsi vedere nei cieli, e con la stessa grandezza, nitidezza e splendore che aveva caratterizzato l’avventura terrena del grande capitano.

 

Fig. 14. Due aspetti della Grande Cometa del 1618, secondo le osservazioni dell’astronomo svizzero Johann Baptist Cysat ( da Hevelius, Cometographia).

Infine, il tumore al volto ebbe ragione di Harriot, che morì nella sua casa di Threadneedle Street, nel cuore di Londra, il 12 luglio 1621. Fu sepolto nella vicina chiesa di S. Cristopher, che fu distrutta nell’incendio del 1666. Al suo posto si trova ora la sede della Banca d’Inghilterra. Per fortuna, però, è sopravvissuta l’iscrizione della pietra tombale, che nel 1971 è stata riportata su una piastra di bronzo fissata a una parete della banca, sotto la quale, da qualche parte, si trovano ancora i resti mortali dell’illustre inglese.

Incredibilmente, di 35 anni di lavoro originale Harriot, in vita, pubblicò solo il breve trattato sulla Virginia. I suoi contributi di algebra, Artis Analyticae Praxis ad Aequationes Algebraicas Resolvendas, apparvero solo dieci anni dopo la sua morte, e fra l’altro in un’edizione non in grado di valorizzare adeguatamente la profondità del suo approccio. Così, il suo lavoro ebbe un’influenza molto inferiore a quella che avrebbe potuto. E gli altri risultati in matematica, fisica e astronomia circolarono soltanto fra gli amici e alcuni colleghi, per mezzo di lettere, e principalmente in Inghilterra.

Sono state avanzate molte ipotesi per cercare di spiegare questa riluttanza a pubblicare. Sicuramente Harriot aveva un carattere piuttosto riservato e forse timido, era un perfezionista, timoroso delle critiche. Inoltre mancava dello zelo evangelico di un Galileo e, a differenza di questi, non aveva una famiglia da mantenere. Aveva una cospicua rendita assicurata, la sua vita era oltremodo agiata, e non aveva quindi bisogno di ricercare la fama come un’assicurazione sulla vita. Probabilmente però gli ostacoli più grandi alla pubblicazione vennero da fattori politici: i tempi erano pericolosi e, soprattutto dopo gli arresti di Raleigh e Percy e i suoi stessi guai giudiziari, ritenne più prudente mantenere un basso profilo. Dobbiamo anche ricordare, fra l’altro, come, dopo la Congiura delle Polveri, la sua casa fosse stata ripetutamente perquisita dagli agenti del re in cerca di prove di un suo coinvolgimento.

Il lavoro di Harriot venne alla luce solo nel 1785 grazie a John Maurice, conte di Brühl, ambasciatore sassone a Londra e all’astronomo ungherese Franz Xaver von Zach, in visita in Inghilterra, che esaminarono le sue carte, riconobbero la loro importanza, ne diedero notizia nell’Europa continentale e ne raccomandarono la pubblicazione. Ma fu solo nel 1833 che gli inglesi ebbero modo di conoscere il loro illustre predecessore, quando Stephen Peter Rigaud, professore di astronomia a Oxford, preparando per la pubblicazione le opere di James Bradley, astronomo reale dal 1742 al 1761, inserì come supplemento a queste una piccola parte dei suoi lavori astronomici. E fu solo in quella occasione che vennero rese note le sue osservazioni telescopiche.

I manoscritti originali di Harriot sono conservati alla British Library, in seguito alla donazione del 1810 di Lord Egremont, e alla Petworth House nel Wiltshire. Nel ventesimo secolo essi hanno ricevuto tutta l’attenzione che meritano da parte degli storici della scienza, inglesi e non. Ma la loro pubblicazione, che sembrava imminente negli anni Sessanta, è sempre stata differita. Speriamo ardentemente che sia finalmente giunto il momento che una più ampia cerchia di addetti ai lavori e di appassionati possa conoscere integralmente il contributo di questo grande genio dell’umanità.